La settimana full immersion: attività integrate per la cura del trauma

Abstract: In seguito al profondo cambiamento della domanda clinica che ha interessato l’ultimo ventennio – caratterizzato dalla crisi dell’ecosistema economico e lavorativo, dalla rottura del patto sociale che prevede la protezione delle generazioni future e dalla diffusa precarietà che ne è conseguita e che tocca un numero crescente di persone e differenti ambiti della vita individuale e sociale – si propone come possibile risposta terapeutica il modello della settimana full immersion.

Si tratta di un’esperienza rivolta sia a pazienti con un vissuto traumatico e condizionati da sintomi gravi sia a coloro che vogliono concentrare e accelerare il processo di guarigione.

La settimana full immersion è un trattamento terapeutico originale, il cui fulcro è costituito dalla terapia EMDR affiancata da altre attività propriamente cliniche (top-down), attività di tipo spirituale come la mindfulness e corporee (bottom-up) come lo yoga e la drammaterapia, il tutto nel rispetto della profonda convinzione che l’integrazione sia la base del vero concetto di salute psicofisica dell’essere umano e che quindi l’interconnessione disciplinare rappresenti un metodo di cura integrato, efficace e coerente con la complessità umana.

Per favorire questo percorso, e per incoraggiare e potenziare nel paziente la funzione esplorativa, lo studio di psicoterapia si trasforma in una “base sicura” che trasmette protezione al paziente, al terapeuta e alla loro relazione.

Il punto di forza che distingue la settimana full immersion è la possibilità, data dalle circostanze e dalla particolare e inedita strutturazione del setting, di entrare in uno stato di flusso che altrimenti difficilmente sarebbe possibile raggiungere con sedute distanziate, mentre in questo contesto è un elemento che si pone centrale come catalizzatore e acceleratore del percorso di guarigione.

Tra le mete finali si rileva come una delle più salienti l’avvicinamento a uno stato di self-compassion e compassione verso gli altri, indicatore di pacificazione interiore e di riparazione completa del trauma.

PREMESSE TEORICHE

Negli ultimi vent’anni, soprattutto a partire dal periodo attorno al 2008 in poi, ho cominciato a riscontrare che il paziente che si rivolge allo studio privato porta spesso patologie più gravi e caratterizzate da canali espressivi diversi, come ad esempio incremento dei disturbi d’ansia e depressivi (documentati anche dall’impennata negli ultimi vent’anni della prescrizione e vendita dei farmaci specifici registrata da Agenzia del Farmaco e Censis[1]), attacchi di panico, problematiche legate allo spettro delle dipendenze, disturbi ossessivi, disturbi dissociativi.

La mia ipotesi è che questa condizione derivi dall’incrociarsi di due processi: il primo è l’aggravarsi della crisi dell’ecosistema economico e lavorativo che ha favorito la creazione di un contesto ad alta vulnerabilità; il secondo riguarda il fatto che il servizio sanitario pubblico, anche come conseguenza di questo cambiamento economico, non sia stato in grado di rispondere ai bisogni della comunità in termini di welfare rompendo, per la prima volta, il patto sociale che prevede di proteggere le generazioni future (Zighetti, 2016). Gli effetti della sempre più diffusa precarietà (non solo lavorativa, ma trasversale a più ambiti) stanno diventando invasivi, pervasivi – e spesso invalidanti – nella vita di un numero crescente di persone.

Uno sguardo costantemente rivolto a questo stato di cose mi ha portata a osservare il mutamento e la evoluzione nel tempo della domanda clinica, quindi a interrogarmi su possibili risposte terapeutiche nuove e adeguate. È in questa cornice che è maturata l’idea della settimana full immersion.

La scelta di offrire un piano integrato, descritto dettagliatamente in seguito, deriva dal considerare l’essere umano come un sistema altamente complesso[2], di conseguenza lo sguardo su di esso non può essere parcellizzato, linearizzato, digitalizzato. Quando parliamo del nostro “essere esseri umani” un modello di correlazione lineare causa-effetto può risultare tranquillizzante, in quanto favorisce l’illusione del controllo, ma non può essere applicato senza grossolane semplificazioni.

In questa ottica integrata di ricerca di risposte terapeutiche congrue ai nuovi bisogni, la mia iniziale preparazione come terapeuta sistemico-familiare si è arricchita e ampliata nell’incontro con la terapia EMDR e il suo modello di elaborazione dell’informazione adattiva AIP[3]. L’approccio terapeutico EMDR ha contribuito a una vera e propria rivoluzione della conoscenza umana legata alla consapevolezza che la psicopatologia sia strettamente correlata allo stress. In particolare, l’Associazione EMDR ha contribuito a diffondere una cultura sulla traumatizzazione che ha permesso ai terapeuti di spiegare, in primis a se stessi, e quindi ai propri pazienti, alcuni aspetti di sofferenza che prima non avevano un nome e spesso non venivano riconosciuti; mi riferisco in particolare al concetto di dissociazione, che riprende quello di disgregazione di Janet[4], e, ad esempio, alla possibilità di inquadrare e trattare il Disturbo Borderline di Personalità come probabile conseguenza del “trauma complesso” o “trauma relazionale”.

La conoscenza del reale impatto del trauma sul cervello ha permesso inoltre di integrare il fondamentale apporto che le neuroscienze ci hanno fornito in questi ultimi anni, svelandoci la formazione e il funzionamento del cervello, strettamente correlato al bisogno di connessione e relazione che John Bowlby aveva già concettualizzato nel secolo scorso con la Teoria dell’Attaccamento e che Stephen Porges[5] ha confermato come un “imperativo biologico” nella sua Teoria Polivagale.

In particolare, i recenti strumenti di neuroimaging hanno chiarito come le emozioni abbiano una precisa correlazione anatomica e funzionale all’interno delle strutture cerebrali[6]. In questo senso possiamo ora connettere i vissuti emotivi riportati dai pazienti a delle precise alterazioni funzionali delle reti neurali[7]

Alla luce di queste importanti premesse, la scelta di proporre una settimana che includesse attività propriamente cliniche (top-down), attività di tipo spirituale come la mindfulness ed attività corporee (bottom-up) come lo yoga e la drammaterapia, rispecchia un’altra convinzione profonda: che l’integrazione[8] sia la base del vero concetto di salute psicofisica dell’essere umano e quindi che l’interconnessione disciplinare rappresenti un metodo di cura più efficace e più coerente con la complessità umana. Al contrario, l’esperienza traumatica spezza, condiziona e distorce sia i legami tra le persone sia le reti neurali all’interno della persona.

Il trauma infatti, come descritto dalla teoria dell’Adaptive Information Processing (AIP) precedentemente citata, interrompe le connessioni tra le cellule cerebrali, i rapporti tra i nostri principali sistemi (mente, corpo, spirito e legami tra individui e gruppi), e disregola i sistemi motivazionali di cui è composta la nostra mente.

In sintesi, sia a livello individuale che sociale, il trauma può disgregare le qualità più tipicamente umane: le funzioni mentali superiori come memoria, linguaggio, creatività, cognizione e metacognizione vengono meno e l’individuo, nei casi più gravi, può sopravvivere solo attraverso modalità di comportamento arcaiche, di tipo difensivo (attacco, fuga, freezing, morte apparente) che garantiscono esclusivamente la sopravvivenza fisica. Gli effetti dell’evento traumatico possono ripercuotersi inoltre nelle generazioni successive, sia influenzando l’ambiente e le relazioni dell’individuo, sia modificandone l’espressione dei geni, così come evidenziano le ultime scoperte nell’ambito dell’epigenetica[9]

Il già citato contesto vulnerabile, che Zygmunt Bauman[10] ha descritto come attuale società disgregata e quindi liquida, contribuisce allo sfaldamento delle relazioni primarie e importanti che, sempre più raramente, riescono a costituire un legame solido e duraturo. Ancora una volta notiamo come ciò che avviene a livello inter-individuale si intersechi con i processi a livello intra-individuale, secondo una causalità circolare: ciò che la persona esperisce nel suo ambiente relazionale entra a far parte del suo funzionamento. Alla liquidità delle relazioni corrisponde infatti un parallelo sfaldamento dei diversi livelli di integrazione della persona, fino a esiti dissociativi e disturbi della coscienza che vengono poi riproposti dal soggetto nel suo agire con le altre persone. In altre parole, in caso di esperienze traumatiche e relazioni negative, la mancata regolazione e sintonizzazione agita dalle figure di attaccamento nell’infanzia favorirà il travaso della disregolazione del soggetto nei rapporti affettivi con le persone più significative e anche nelle generazioni successive.

La settimana full immersion rappresenta, in risposta a tutto ciò, un modello e un contenitore sia teorico che materiale dell’approccio interdisciplinare, sistemico, integrato che meglio può rispondere alla necessità di benessere psicofisico dell’essere umano e al miglioramento della qualità della vita.

SETTIMANA FULL IMMERSION: A CHI È RIVOLTA

  • A pazienti che hanno subito traumatizzazione complessa con ripetute e croniche esperienze relazionali carenti o distorte, pazienti molto gravi, con comportamenti a rischio e con alti livelli di dissociazione che necessitano di un ambiente sicuro e protetto, con una ridotta interferenza dei trigger della “vita quotidiana”, per favorire il processo di integrazione e stabilizzazione che costituisca la base necessaria per la successiva elaborazione dei contenuti traumatici.
  • A pazienti senza alto livello di dissociazione, ma con sintomi più o meno acuti e invalidanti che hanno l’urgenza di ritrovare un maggiore equilibrio e regolazione emotiva.
  • A pazienti con una situazione di sovraccarico personale o professionale che impedisce loro di usufruire pienamente della elaborazione fatta nel corso della classica seduta settimanale: le sedute così ravvicinate permettono infatti di entrare in uno “stato di flusso” senza essere distratti o interferiti dalle richieste della quotidianità o addirittura dalle perturbazioni della stessa.

Da queste osservazioni ho suggerito ad alcuni pazienti di affrontare un cluster di target tramite una seduta al giorno per una settimana, dando la possibilità, per tutto il resto della giornata, di rimanere nel centro e di partecipare liberamente a varie attività.


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SETTIMANA FULL IMMERSION: COME SI È SVOLTA

Nella tabella si riporta, a titolo esemplificativo, la strutturazione delle attività (i nomi riportati sono di fantasia).

Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì
8.30-9.30 Mario Mario Mario Mario Mario
9.30-10.30 Eva Eva Eva Eva Eva
10.30-11.30 Antonio Antonio Antonio Antonio Antonio
11.30-12.30 Laura Laura Laura Laura Laura
12.30-13.30 Giovanni Giovanni Giovanni Giovanni Giovanni
13.30-15.00 Gruppo di parola Minfulness Informazione alimentare Yoga Drammaterapia
15.00-16.00 Arturo Arturo Arturo Arturo Arturo
16.00-17.00 Anna Anna Anna Anna Anna
17.00-18.00 Paola Paola Paola Paola Paola
18.00-19.30 Laboratorio creativo Yoga Drammaterapia Minfdulness Gruppo di parola

N.B.: Il paziente potrà trattenersi presso la sede anche oltre l’orario della psicoterapia sia per attività di relax (verrà attrezzata una zona in giardino con riviste e possibilità di qualche snack e bevanda) che per essere presente alle attività laddove non fossero contigue alla propria seduta di psicoterapia.

Prima di iniziare la settimana full immersion i pazienti avevano già tutti fatto una tranche di terapia che aveva contemplato una accurata fase di anamnesi messa a punto dalla nostra équipe multidisciplinare che, oltre a domande mirate a comprendere il disturbo e il sintomo emotivo, indaga lo stile di vita e la salute organica del paziente utilizzano precisi strumenti clinici[11].

Per ogni paziente si è preparato un piano terapeutico condiviso e il programma per l’intera settimana, stabilendo prima, e quando possibile, l’elaborazione di un target al giorno. Le sedute, previa raccolta del consenso, potevano essere anche monitorate dietro lo specchio da una psicoterapeuta formata EMDR.

Come si può evincere dalla tabella i colloqui sono stati programmati alla stessa ora tutti i giorni, con un minimo di cinque giorni consecutivi e sono state predisposte alcune attività integrative di gruppo condotte da personale qualificato, lasciando il paziente totalmente libero di scegliere se partecipare o meno.

Le attività proposte si svolgevano in fasce orarie durante le quali non erano state programmate le sedute di terapia individuale e, pur invitando i pazienti ad accogliere l’opportunità di vivere una esperienza di condivisione con gli altri partecipanti, è stata data loro anche la possibilità di usufruire di sessioni individuali per alcune delle attività.

La proposta è stata di sessioni della durata di un’ora o un’ora e trenta minuti condotti tutti da professionisti dell’équipe del centro:

  • Gruppo di parola: proposto sia all’inizio che al termine della settimana, ha facilitato, oltre all’espressione del proprio disagio, anche la conoscenza con gli altri partecipanti e la possibilità di uscire dall’isolamento che le persone sofferenti spesso sentono rispetto alla propria condizione di “diversi” e soli.
  • Drammaterapia: ha promosso il contatto dei pazienti con se stessi e tra di loro. Questa attività si è concentrata sull’uso teatralizzato del corpo e sulle abilità di socializzazione; non è stata usata per elaborare le memorie traumatiche.
  • Mindfulness (secondo il modello di Gilbert): ha permesso di aumentare la consapevolezza dei propri processi interiori e aiutato le persone a non farsi sopraffare dai propri stati emotivi e a gestire in modo più funzionale i pensieri e le azioni che ne conseguono.
  • Yoga[12] e Meditazione in movimento: hanno potuto sfruttare gli spazi all’aperto del grande giardino, con il senso di riconnettersi al proprio corpo.
  • Neurofeedback: proposto a completamento del percorso terapeutico per la sua capacità di integrazione, regolazione, armonizzazione delle funzioni cerebrali[13]
  • Laboratorio creativo: ha permesso di comunicare le proprie emozioni e di esternare il proprio stato d’animo, offrendo un approccio alternativo alla parola, consentendo così di sperimentare dal vivo un modo per uscire dagli schemi del pensiero normale. La capacità di cambiare strategia ideativa e di produrre idee senza che siano finalizzate alla risoluzione del problema, allarga gli orizzonti e ci fa comprendere che ogni cosa può essere guardata da varie angolazioni.

Le attività extra-cliniche sono state scelte con la finalità di creare sicurezza, stabilizzazione e regolazione attraverso canali diversi. Ed effettivamente queste discipline hanno dato la possibilità, a chi ne sentiva il bisogno, di ritrovare una maggiore stabilità dopo un’elaborazione intensa, di favorire il consolidamento di alcuni progressi, di regolare lo stato di attivazione e rafforzare la consapevolezza del proprio corpo e sperimentare nuove strategie per rientrare autonomamente nella propria finestra di tolleranza. Grazie alla settimana full immersion, la frequentazione delle attività è divenuta un rito quotidiano, che ha avuto per molti pazienti un effetto rassicurante e stabilizzante.

Inoltre, la costruzione del piano terapeutico individuale prevede, a discrezione del singolo caso, la possibilità di avvalersi della integrazione con tutte attività proposte dalla nostra associazione[14] ritenute più idonee alla singola situazione, e non soltanto quelle indicate sopra.

Per tutta la durata dell’esperienza è stata garantita in loco la presenza di una persona qualificata con mansioni organizzative: scandiva i tempi durante tutta la giornata, indicava dove si svolgevano le attività ed era di riferimento per le piccole necessità; al di là di questa funzione logistica, la sua figura ha contribuito a rafforzare un senso di ospitalità e accoglienza.

Nelle aree comuni vi erano a disposizione bevande fresche e snack; il giardino era fruibile ed attrezzato con zone d’ombra, tavolini, poltroncine e amache, molti pazienti usufruivano dello spazio all’aperto per rilassarsi da soli, ad esempio sull’amaca o leggendo un libro sotto agli alberi.

All’interno del centro è stata dedicata anche una stanza per poter dormire o riposare. Ciò ha offerto ai pazienti la possibilità di permanere presso lo studio finché non avessero ritrovato uno stato di regolazione ottimale per tornare alla realtà esterna. La “trasformazione” degli studi di psicoterapia in un ambiente accogliente dove poter lavorare su se stessi, e anche svolgere normali attività come mangiare o riposare, ha contribuito a far sì che il centro diventasse una base sicura.

Rispetto al format fin qui descritto sono state inoltre sperimentate, con buoni esiti, delle varianti. È infatti possibile effettuare sedute ravvicinate (anche quotidiane) rivolte a persone che stanno affrontando un periodo di ricovero. Ad altri pazienti invece, durante l’anno, in momenti del proprio percorso in cui le condizioni sono ritenute opportune, viene proposto un ciclo di un minimo di tre sedute settimanali della durata di un’ora o un’ora e mezza durante le quali, anche in assenza di tutte le attività complementari, poter comunque riprodurre lo stato di flusso precedentemente descritto e apportare al proprio cammino terapeutico un beneficio di accelerazione.

FEEDBACK DEI PAZIENTI

Dopo circa due mesi ho verificato assieme alla dottoressa Elena Nicolini (che nella prima edizione dell’intensivo ha seguito le sedute dietro lo specchio e che quest’anno ha partecipato sia all’organizzazione sia come terapeuta con alcuni suoi pazienti) l’effetto di questa esperienza sui pazienti. Abbiamo organizzato un incontro di gruppo, a partecipazione libera, chiedendo ai partecipanti di condividere le proprie opinioni e di darci dei feedback. Abbiamo inoltre somministrato in forma anonima un questionario di gradimento.

Dai riscontri dei pazienti è emerso nel complesso un alto livello di soddisfazione: l’esperienza è stata descritta come altamente trasformativa, tanto da richiedere altre edizioni con la possibilità di implementazione delle attività integrative di gruppo.

Secondo quanto restituito dai pazienti, uno degli elementi più decisivi per il successo del programma è stata la totale immersione nella cura di se stessi. Un altro aspetto riportato è stato l’importanza di condividere con gli altri le proprie vulnerabilità[15].

Le persone hanno inoltre confermato come l’ambiente del centro abbia rappresentato un luogo sicuro: questo, assieme alla disponibilità quotidiana del terapeuta, è stato riportato come elemento di regolazione emotiva.

Il lavoro terapeutico, indipendentemente dagli approcci, tende a regolarizzare e riequilibrare il paziente: nella dimensione di flusso quotidiano, ripetuto per una settimana, questi aspetti vengono potenziati. I soggetti più reattivi ai trigger, che rivelavano quindi una sottomodulazione a livello corticale, hanno riportato un abbassamento dell’attivazione, con un vissuto di maggior calma e stabilità; per altri pazienti invece, caratterizzati da un arousal basso, la stessa esperienza ha risvegliato un tono di attivazione più funzionale.

I partecipanti hanno colto in pieno il valore di ciascuna delle attività integrative: liberare la mente tramite la meditazione e la mindfulness, ascolto del ritmo della respirazione, riprendere contatto con il proprio corpo per tornare nel luogo e tempo presente esperito tramite le lezioni di yoga, concretizzare i contenuti emotivi a effetto degli esercizi proposti dalla drammaterapia.

Gli esiti della settimana full immersion sono giunti ai pazienti con tempi variabili: per alcuni i miglioramenti sono avvenuti intorno agli ultimi due giorni, mentre per altri è stato necessario un tempo maggiore e i risultati si sono manifestati nei giorni o mesi successivi.

A distanza di un anno posso affermare che la vita di alcuni pazienti è stata rivoluzionata e che l’accelerazione del cambiamento è iniziata proprio a seguito della settimana full immersion.

GLI INGREDIENTI NECESSARI

  • Contesto sicuro

Con la settimana full immersion abbiamo voluto trasformare il concetto psicologico della base sicura in un luogo reale che favorisse l’esplorazione e la rilettura anche dei contenuti interni più dolorosi, ma dal quale poter anche uscire e entrare liberamente, certi di trovare il conforto e la protezione di cui si ha bisogno ma anche il necessario contenimento.

  • Relazione di attaccamento

La relazione con il terapeuta e con il luogo di cura, dove spesso i pazienti si sono rifugiati in situazioni di pericolo o attivazione estrema, hanno permesso una fase di regressione del paziente e la possibilità di ri-modellazione delle reti neurali collegate alla parte ventro-vagale riguardante la relazione primaria con il caregiver.

Il terapeuta e il contesto permettono nel percorso intensivo di ricreare la massima situazione vicina all’attaccamento e una nuova fase di imprinting. È estremamente importante che l’intera rete dei curanti sia sintonizzata su tutti i bisogni, anche materiali, del paziente perché è questo stato di flusso che permette una riparazione mielinica di reti collegate alla relazione sociale e alla esperienza di intersoggettività.

Il contatto quotidiano con il terapeuta e il luogo di cura permettono la continua organizzazione-disorganizzazione-riorganizzazione di informazioni. Lo sguardo e la modulazione della voce umana del terapeuta-caregiver riducono la produzione di cortisolo e favoriscono invece la produzione di ossitocina, disattivando le reazioni attacco-fuga e aiutando la regolazione degli stati e la esplicitazione e aggregazione anche delle memorie traumatiche più implicite. Infatti, per esempio, è stato durante l’intensivo che due pazienti mi hanno rivelato segreti di cui portavano il peso e la vergogna, ma nel precedente anno di terapia non avevano avuto la forza, o la necessaria fiducia, per poterli condividere e quindi affrontare.

Poiché l’attaccamento è il sistema motivazionale primario[16] che permette al cervello rettile di evolversi nel cervello intersoggettivo, lo scopo è quello di rafforzare il sistema motivazionale della cooperazione disattivando i sistemi di difesa e rango. Fondamentalmente questo si riferisce alla necessità di essere “visti” dal caregiver: l’emisfero destro del terapeuta deve diventare un pattern per lo sviluppo dell’emisfero destro del paziente, così come sarebbe dovuto accadere per il genitore con il bambino. È dunque fondamentale mantenere un contatto visivo e che il terapeuta sia il più possibile consapevole dell’utilizzo della sua parte ventro-vagale mielinizzata per ingaggiare e mantenere il contatto con il paziente, per rassicurarlo e incoraggiarlo nel momento in cui appariranno i cambiamenti neurobiologici promossi dalla stimolazione bilaterale e dal contatto umano, questo per promuovere la elaborazione, desensibilizzazione e riprocessamento dell’informazione, e quindi l’integrazione. L’attaccamento sicuro origina in una relazione diadica all’interno della quale il genitore rispetta le differenze con il bambino e offre una comunicazione compassionevole, è questa attività a costituire una forma di integrazione del cervello. Essere genitori è il processo fondamentale e in questo senso: sulla scia di quel modello di relazione il terapeuta sta offrendo una relazione integrata.

È possibile favorire l’integrazione di coscienza e consapevolezza tramite le “coccole” all’emisfero destro del paziente anche concretizzando piccoli segnali e gesti di attenzione verso di lui (come ad esempio il tono di voce compassionevole o l’offerta di cura fisica, anche attraverso l’offerta di cibo e bevande), in questo senso l’utilizzo da parte del terapeuta della parte ventro-vagale è finalizzata a un rapporto di mirroring e mastering.

Ho notato che è stato molto più facile per me pormi come figura di attaccamento vicaria (il famoso “surrogato di madre”?) sentendomi a mia volta sicura in un contesto prevedibile e lavorando con uno strumento particolarmente adatto per elaborare anche le memorie sensoriali incapsulate nelle reti neurali al momento del trauma.

  • Elaborazione EMDR

L’integrazione con la terapia EMDR ha permesso di lavorare sul ricordo fisico immagazzinato e si è visto durante la settimana full immersion come il ricordo si sia spostato dalle aree limbiche a quelle parietali laterali. Questo è stato possibile soprattutto tramite la stimolazione bilaterale e promuovendo integrazione e consapevolezza attraverso l’esplorazione di parti del sé terrorizzate o aggressive o negative, grazie alla relazione di parenting con il terapeuta e alla situazione di sicurezza continuativa, prevedibile e fluida.

Nello specifico il focus della terapia EMDR è la possibilità di favorire il ripristino di un funzionamento armonico della comunicazione tra emisfero destro e sinistro del cervello intervenendo sui danni riportati a seguito del trauma. I movimenti oculari permettono un vera è propria trasformazione neurobiologica della rete neurale: l’informazione traumatica trasmigra fisicamente da una zona centrale, limbica, emotiva del cervello ad una zona visiva-corticale, permettendo una corretta e definitiva archiviazione delle memorie[17].

Il ricordo viene così riposto ordinatamente, come un libro in uno scaffale che il paziente può andare a prendere e consultare tutte le volte che vuole senza più essere travolto dalle emozioni, sensazioni e cognizioni negative che durante l’esperienza traumatica erano state “congelate” e incapsulate nel ricordo traumatico e non integrate al resto delle informazioni e conoscenze in modo ottimale e funzionale dal cervello.

Il concetto di neuroplasticità negli ultimi anni è risultato centrale nel guidare le terapie ad essere il più possibile attinenti alla nostra struttura biologica. Con ciò ci si riferisce alla capacità dell’encefalo di modificare la propria struttura e la propria funzionalità in risposta agli stimoli provenienti dall’ambiente esterno, sia fisico che relazionale; in particolare è significativa la scoperta che i processi neuroplastici continuano lungo tutto il corso della vita, seppur con diverso potenziale. Questo ha gettato una nuova luce sulla conoscenza della natura del cervello e sul funzionamento della mente e tutto ciò apre lo scenario a nuove possibilità di cura della psicoterapia.

Dal momento che i traumi e gli stati di deprivazione di cure e affetto interferiscono con il processo di allineamento e comunicazione tra i due emisferi, attualmente la psicoterapia si propone di promuove il benessere proprio attraverso la stimolazione e l’incentivo dell’integrazione della comunicazione tra emisfero destro e sinistro.

  • Legami di gruppo

Spesso la persona che vive una situazione di stress non riesce a esprimere e comunicare il proprio disagio con modalità comprensibili e condivisibili nel contesto in cui vive (familiari, amici, rete sociale) e se la comunicazione con il contesto di vita si interrompe, o diventa estremamente difficile, la persona sarà o si sentirà isolata.

Il gruppo può rappresentare una occasione di dialogo tra persone che condividono la stessa esperienza di sofferenza psichica e che, proprio per questo, hanno più probabilità di comprendere e condividere i contenuti della sofferenza stessa.

La condivisione con l’“altro” crea il legame, la connessione tra esseri umani, quello per cui siamo geneticamente programmati da 40.000 generazioni, mentre, al contrario, la sensazione di solitudine attiva nel nostro cervello precise aree nervose[18] che ci fanno “provare dolore” proprio per indurci a porvi rimedio, e quindi a sopravvivere.

QUALI VANTAGGI

Spesso, prima ancora che il paziente ne sia consapevole, lo stato di flusso positivo e continuativo generato dalle attività della settimana full immersion interrompe la viralità del trauma e il circolo vizioso nel quale la persona si trova immersa.

Alcuni pazienti in seguito a questa esperienza hanno ottenuto il raggiungimento di obiettivi molto significativi, come ad esempio il cambio di casa o di lavoro, in quanto l’intensità delle sedute ravvicinate ha permesso di “scaricare” molto materiale traumatico facendo spazio a un nuovo stato di equilibrio e regolazione e quindi a nuove scelte adulte, libere e consapevoli.

La frequenza ravvicinata delle sedute ha favorito uno stato di flusso tra paziente e terapeuta che ha permesso l’attuarsi di processi di sincronizzazione neuropsicologica[19] e di risonanza comportamentale e il tempo così organizzato è divenuto un contenitore di appartenenza e di familiarità; ciò ha predisposto il paziente ad abbassare le sue difese ed esplorare i contenuti interni più dolorosi potendosi appoggiare a un luogo percepito come “base sicura”.

In alcuni casi il passaggio dalla seduta EMDR alla quotidianità è un momento delicato, soggetti con vissuti più gravi e traumi complessi necessitano di più tempo per stabilizzarsi, quindi il poter restare nel centro per l’intera giornata costituisce un elemento di salvaguardia e tranquillità offrendo un vantaggio di protezione.

È importante sottolineare come il contatto con gli altri partecipanti del programma ha creato condivisione e connessione emotiva e ha favorito nei pazienti l’idea di non essere i soli portatori di disagio.

Il centro ha dato anche la possibilità di usufruire di spazi di ritiro personale, dove lasciar sedimentare i vissuti e i sentimenti più faticosi e riacquisire consapevolezza di sé senza l’interferenza di altre persone.

Per alcuni pazienti già la sola scelta di aderire al programma si è rivelata benefica, perché ha rappresentato una presa di consapevolezza dei propri bisogni e la ricerca di un ruolo attivo e responsabile nel prendersi cura di sé.

Va ricordato che, per l’impegno di energie che la settimana full immersion comporta, è necessario che né il paziente né il terapeuta alimentino aspettative rigide o irrealistiche rispetto agli esiti dell’esperienza; entrambi devono potersi affidare al processo, tollerando la frustrazione di non poterlo controllare.

Per la mia esperienza la settimana full immersion raggiunge la sua massima efficacia quando la coppia terapeutica ha completato la fase di anamnesi, diagnosi e la costruzione del piano terapeutico attraverso la concettualizzazione del caso, e, soprattutto, dopo aver costruito il necessario rapporto di fiducia. Il paziente deve essere motivato e sufficientemente stabile per affrontare i ricordi inseriti nel piano terapeutico e deve essere consapevole e disponibile a fare spazio nella propria vita a questa esperienza sotto più punti di vista (trovare la giusta apertura interiore, ma anche la giusta quadra verso alcune questioni logistiche per es. prendere qualche giorno di ferie, fare un piccolo investimento dal punto di vista economico).

PROSPETTIVE FUTURE

Questa esperienza pilota ha rivelato a mio parere nuove possibilità di intervento sia ai pazienti che ai terapeuti. Per i primi, la settimana full immersion può essere una occasione di investimento a vari livelli sulla cura di sé; per i secondi può costituire una proposta alternativa al lavoro tradizionale, all’interno di un contesto tutelante per il professionista e il cliente.

Dal punto di vista clinico ho avuto conferma che la proposta al paziente di intensificare le sedute con incontri più ravvicinati nel tempo costituisca una modalità molto più produttiva che, una volta individuato il piano terapeutico, accelera il processo di guarigione[20]. Perciò questo tipo di percorso terapeutico più rapido e di impatto a mio parere è una soluzione che risulta rispondere in modo più proficuo e congruo alle esigenze delle persone, sempre più numerose, che presentano disagi e problematiche tipicamente legati alla dimensione traumatica (individuale e sociale).

L’evoluzione quasi naturale di questo progetto/proposta di cura sarà di organizzare un luogo idoneo ad accogliere alcuni dei pazienti (specialmente tra quelli con traumi complessi) anche durante la notte, offrendo loro un rifugio sicuro e protetto da cui poter andare e venire. Un luogo caratterizzato dall’accettazione totale dove possano sperimentare e condividere anche momenti positivi: non solo quindi un contenitore dell’area clinica per i casi acuti, ma anche un luogo di appartenenza.

Questa struttura potrà anche essere la piattaforma di accoglienza per i pazienti di altri terapeuti (che ad esempio non praticano l’EMDR) per l’elaborazione di traumi con la T maiuscola o traumi da abuso; sempre in rete con il terapeuta inviante, dopo aver concordato il piano terapeutico da affrontare durante la settimana full immersion, e restituendo il paziente al suo percorso originario con il proprio terapeuta il più presto possibile, con il vantaggio di non interrompere il percorso psicologico per un periodo eccessivamente lungo[21] e preservare quindi l’alleanza terapeutica.

Si potrà anche offrire ad altri terapeuti EMDR la possibilità di utilizzare la struttura insieme ai propri pazienti, che così potranno usufruire delle attività integrative e di tutti i vantaggi sopra descritti; mentre colleghi che dovessero avere minore dimestichezza nei confronti della tecnica potranno condurre le sedute con i propri pazienti con la supervisione di personale specializzato dietro lo specchio unidirezionale.

CONCLUSIONI, LA COMPASSIONE

Vorrei concludere sottolineando il valore che ha avuto questa esperienza per la mia vita personale e professionale: entrare così intensamente a contatto con i pazienti ed il loro percorso di miglioramento rinnova in me la gratificazione derivante dal lavoro clinico.

La compassione[22], lontana dai fraintendimenti legati alla pena e alla debolezza, è un concetto a me molto caro, e costituisce una componente essenziale del trattamento clinico.

Per i disturbi traumatici complessi, legati a disturbi dissociativi importanti, la self-compassion rappresenta lo strumento clinico per eccellenza, è non può che nascere dalla relazione con il terapeuta. La compassione quale motivazione ad alleviare la sofferenza altrui si avvale, infatti, di tre circuiti essenziali: la compassione verso gli altri, quella che si riceve dagli altri e quella verso se stessi.

Tramite la self-compassion il paziente favorisce l’integrazione delle parti dissociate riconoscendo e validando la propria sofferenza, ritrovando regolazione e controllo di sé e trasformando la reazione difensiva a ciò che accade in una azione che gestisce la realtà e il contesto.

La self-compassion, inoltre, facilitata tramite i movimenti oculari, collega le parti del sé distaccate e dissociate dal trauma così come ricollega le reti neurali all’interno del contenitore relazionale. Il terapeuta favorisce la funzione di realizzazione e di sintesi della coscienza permettendo al paziente di sentirsi integrato, consapevole e presente a se stesso.

Il tema della compassione è stato trattato per ultimo in quanto l’approdo a uno stato di self-compassion, e quindi di compassione verso gli altri, può essere considerato uno dei potenziali importanti esiti e traguardi di una psicoterapia che racchiude tutte le caratteristiche fin qui descritte, e vuole anche essere un messaggio di speranza verso la risoluzione e la pacificazione per tutte le persone che hanno vissuto esperienze di disagio e traumatiche.

NOTE

[1]              Dai report di Aifa emerge che il consumo di antidepressivi, sonniferi e ansiolitici è aumentato del 310% dal 2000 al 2008, in particolare l’acquisto di antidepressivi in Italia è aumentato dal 2004 del 4,5% all’anno. Secondo Censis, aggregando i dati delle ASL tra il 2001 e il 2009, gli aumenti sono stati nell’ordine del 114%.

[2]              “V’è complessità quando sono inseparabili le differenti componenti che costituiscono un tutto […] e quando v’è un tessuto interdipendente, interattivo e interretroattivo fra le parti e il tutto e fra il tutto e le parti” (Morin E., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano: Raffaello Cortina, 1999).

[3]              Secondo il modello dell’Adaptive Information Processing (AIP) nel momento in cui un evento traumatico impatta l’individuo si attivano una serie di risposte biochimiche per farvi fronte. Questa pletora di informazioni legate al trauma (sotto forma di sensazioni somatiche, emozioni e pensieri) si cristallizzano poi in uno stallo neurobiologico, bloccate in reti neurali a se stanti e scollegate dal resto esse mantengono attivo nell’individuo lo stato di attivazione esperito durante l’evento. Questa costellazione traumatica di informazioni, che costituisce appunto il cosiddetto materiale traumatico, assume una sorta di “vita propria” frammentaria e isolata che, senza possibilità di integrarsi con le altre informazioni e conoscenze, dà quindi luogo a circuiti di memoria disfunzionali. La più significativa differenza tra un ricordo immagazzinato in modo funzionale e uno disfunzionale è che il primo può essere richiamato volontariamente e tramite un accesso libero, mentre il secondo può presentarsi in modo del tutto involontario e ingestibile (per es. immagini e pensieri intrusivi, flashback) mettendo il soggetto in uno stato di disagio e costituendo il serbatoio psichico per una vasta produzione di sintomi. Obiettivo della psicoterapia, in questo caso, è favorire l’elaborazione del blocco e la progressiva riduzione di questo stato di disregolazione ripristinando una condizione di equilibrio e benessere. Per una trattazione più estesa si veda Fernandez I. & Giovanozzi G. (2012), EMDR e elaborazione adattiva dell’informazione. La psicoterapia come stimolazione dei processi psicologici autoriparativi, in Rivista di Psichiatria, DOI: 10.1708/1071.11731 https://www.rivistadipsichiatria.it/articoli.php?archivio=yes&vol_id=1071&id=11731

[4]              Dunque, non possiamo definire il cervello umano come assemblaggio di pezzi, ma come integrazione tra molteplici funzioni e parti fino a quello che Jackson ha definito il “livello più alto”, cioè la coscienza che rappresenta se stessa. Maggiore è lo stato di integrazione, maggiore è lo stato di benessere; è estremamente interessante e chiarificatore osservare cosa avviene invece nel caso di impatto con esperienze traumatiche che agiscono sulle funzioni integratrici superiori, disgregandole. A questo proposito, il termine francese “désagrégation”, disgregazione, utilizzato originariamente da Pierre Janet, ben evidenzia il processo di perdita di coerenza e integrazione dovuta alla progressiva dissoluzione delle funzioni di coscienza: immaginate ad esempio un edificio, poi immaginate che si sgretoli, piano piano, immaginate che venga giù un pezzettino di intonaco, poi un pezzo di muro, poi un intero mattone, poi tutto il muro, poi la finestra attaccata al muro. In caso di trauma non risolto, lo stesso processo di sfaldamento può avvenire nella nostra mente; in questo senso la disgregazione è un processo di cui fenomeni e sintomi dissociativi (distacco/alienazione e compartimentazione) sono il risultato. Il trauma infatti interrompe le connessioni tra le cellule cerebrali, i rapporti tra i nostri principali sistemi […].” (Zighetti M., Essere Esseri Umani, Milano: Edizioni dEste, 2016).

[5]              Si veda Porges S., La guida alla teoria polivagale. Il potere trasformativo della sensazione di sicurezza, Roma: Giovanni Fioriti Editore, 2018 e Porges S., Dana D., Le applicazioni cliniche della teoria polivagale. La progressiva affermazione della Teoria Polivagale nelle terapie, Roma: Giovanni Fioriti Editore, 2020.

[6]              Per approfondimenti si rimanda a Richardson D., La vita emotiva del cervello, Firenze: Ponte alle Grazie, 2013.

[7]              Già Bateson nel 1972 diceva: “Si può dire che la ‘mente’ è immanente in quei circuiti cerebrali che sono interamente contenuti nel cervello; oppure che la mente è immanente nei circuiti che sono interamente contenuti nel sistema: cervello più corpo; oppure che la mente è immanente nel più vasto sistema: uomo più ambiente”.

[8]              “Possiamo definire il benessere quando un sistema è integrato; l’integrazione implica il collegamento di parti differenziate di un sistema, se presente, ne risultano flessibilità e armonia; se assente, si manifestano caos e rigidità” (Report dal workshop di Daniel Siegel La Neurobiologia Interpersonale. La psicoterapia funziona: perché?, Milano 20-21 settembre 2013, in https://www.stateofmind.it/2013/09/daniel-siegel-workshop/).

[9]              L’epigenetica è una recente branca della biologia che studia come nella sequenza del DNA i geni possano subire diverse espressioni, pur rimanendo identici nella loro sequenza nucleotidica. Tali modifiche del fenotipo avvengono in seguito ad impatti ambientali rilevanti e sono potenzialmente trasmissibili alle generazioni future, attraverso meccanismi come la metilazione (per la quale la citosina, una base del DNA, viene agganciata da un gruppo chimico -CH3 e non può quindi esprimere le informazioni in esso contenute). Tra gli studi epigenetici maggiormente rilevanti rispetto agli effetti transgenerazionali del trauma si veda Yehuda e coll. (2009 e 2015).

[10]            Bauman Z., Modernità liquida, Bari: Laterza, 2012.

[11]              Adult Attachment Interview (AAI), Scala per la misura del Disturbo Dissociativo (DES), Inventory Stress (Giannantonio M., 2003), Genogramma.

[12]              Hatha Yoga e Trauma Sensitive Yoga: TCTSY è un intervento clinico validato empiricamente per traumi complessi o Disturbo da Stress Post-traumatico cronico resistente al trattamento (PTSD). Oltre allo yoga, TCTSY ha basi nella teoria del trauma, nella teoria dell’attaccamento e nelle neuroscienze. La metodologia TCTSY si basa su componenti centrali dello stile Hatha Yoga, in cui i partecipanti si impegnano in una serie di forme fisiche e movimenti. Gli elementi dello Hatha Yoga standard sono modificati per massimizzare le esperienze di empowerment e coltivare una relazione più positiva con il proprio corpo. TCTSY offre l’opportunità ai partecipanti di essere responsabili di se stessi in base alle sensazioni del proprio corpo nel momento presente. Sebbene TCTSY impieghi forme fisiche e movimenti, l’enfasi non è sull’espressione o sull’aspetto esterno (cioè l’intenzione di realizzare una posizione in modo “giusto” o “corretto”) o nel ricevere l’approvazione di un’autorità esterna. Piuttosto, l’attenzione è focalizzata sull’esperienza interna del partecipante. Questo spostamento dell’orientamento, dall’esterno verso l’interno, è un attributo chiave del TCTSY come trattamento complementare per traumi complessi. Con questo approccio il potere risiede nell’individuo, non nel facilitatore TCTSY (TCTSY-F). Inoltre, concentrandosi sulle sensazioni del corpo per operare una scelta nel momento presente, TCTSY consente ai partecipanti di ripristinare la loro connessione tra mente e corpo (interocezione) e coltivare un senso di libero arbitrio che è spesso compromesso a causa del trauma. Come approfondimento bibliografico riguardo a yoga e trauma si veda Van der Kolk, B., Il corpo accusa il colpo, cap. 16 “Imparare ad abitare il proprio corpo. La pratica yoga”, Milano: Raffaello Cortina, 2015.

[13]              “Quando il corpo viene considerato una fonte di intelligenza, di ricordi, di informazioni, in ogni esperienza corporea significativa vi si può ritrovare una componente mentale, emotiva, spirituale. Sperimentare sensazioni corporee positive, stimolare attività sensoriali, avvicinarsi ad espressioni artistiche come teatro, musica, danza, pittura, scultura sono alcuni dei percorsi protettivi che favoriscono, in particolare per persone che hanno subito traumi, l’integrazione di emozioni, la regolazione dell’attivazione fisiologica e la capacità di concentrarsi sul qui e ora. Un potente aiuto nell’integrare quelle parti dissociate di sé che la sofferenza del Trauma ha allontanato dalla nostra consapevolezza.” (Duccoli D., Il trauma e il corpo, in Medicina narrativa, maggio 2017). https://www.medicinanarrativa.eu/il-trauma-e-il-corpo

[14]              https://essereesseriumani.it/attivita-mente-corpo-associazione/

[15]              Sono emersi molti dei fattori terapeutici della terapia di gruppo descritti in Yalom I., Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Torino: Bollati Boringhieri, 2009.

[16]              Si veda Liotti G., Farina B., Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa, Milano: Raffaello Cortina, 2011.

[17]              Per un approfondimento sui circuiti interessati all’elaborazione del trauma nella terapia EMDR si rimanda a Pagani M., Di Lorenzo G., Verardo A., Nicolais G., Monaco L., Niolu C., Fernandez I. & Siracusano A. (2012), Substrato neurobiologico della terapia con EMDR, in Rivista psichiatrica, DOI: 10.1708/1071.11734  https://www.rivistadipsichiatria.it/articoli.php?archivio=yes&vol_id=1071&id=11734

[18]              La corteccia cingolata anteriore e la corteccia prefrontale ventrale destra, che sono le stesse aree attivate dal dolore fisico.

[19]              Per approfondimenti si rimanda alle ricerche dell’Istituto di psicosomatica PNEI.

[20]            L’idea della settimana full immersion è nata a seguito dei risultati inaspettati e particolarmente positivi avuti con un paziente dal quadro clinico molto grave a cui avevo consigliato il ricovero in clinica e che ho trattato con la terapia EMDR una volta al giorno per 16 giorni consecutivi (sabati e domeniche incluse).

[21]            Queste ipotesi sulle possibili applicazioni della settimana full immersion non prescindono dal fatto che ogni invio vada attentamente esaminato e valutato per individuare se ci sono le condizioni per cui il paziente possa trarre beneficio da questa esperienza.

[22]            Paul Gilbert ritiene che molti quadri di disturbi psicologici siano alimentati da emozioni quali la vergogna, il senso di colpa e comportamenti di giudizio/autocritica che comportano uno squilibrio nei sistemi di regolazione delle emozioni acquisiti durante l’infanzia. Esperienze precoci negative riducono l’attivazione del sistema di sicurezza fino a renderlo, talvolta, inaccessibile e questo disagio è ulteriormente esacerbato dalla attivazione del sistema di minaccia e protezione a seguito della quale originano, come reazione difensiva, risposte di vergogna, critica/autocritica, paura e rabbia che, sedimentando e tendendo a cronicizzarsi, causano nella vita adulta un ostacolo al raggiungimento di un equilibrio funzionale e alla fioritura personale. In molti casi risulta scarsamente efficace lavorare in terapia con un intervento sulle credenze disfunzionali della persona, mentre l’elemento compassione introduce nel processo di cambiamento una rottura del circolo vizioso delle convinzioni negative, del giudizio, del rimuginio e della ruminazione mentale. La compassione infatti (che si può insegnare e si può apprendere) ha effetti profondi sulla modulazione dei sistemi motivazionali attinenti all’attaccamento il cui ripristino permette un cambiamento positivo nel paziente favorendo la riparazione dell’equilibrio tra i tre sistemi di regolazione delle emozioni. Si veda Gilbert P., La terapia focalizzata sulla compassione. Caratteristiche distintive, Milano: Franco Angeli, 2016 e www.compassionatemind.co.uk sito della Compassion Mind Foundation.

Autore: dott.ssa Marta Zighetti con la dott.ssa Elena Nicolini

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