Perchè a noi terapeuti familiari piace così tanto EMDR

Dopo alcuni anni di pratica clinica, mi sembra testimoniabile con certezza che chi fa il terapeuta voglia curare delle proprie ferite interne canalizzando la sofferenza in modo costruttivo seguendo un percorso di comprensione della realtà interna ed esterna attraverso la ricerca del significato del proprio dolore e di quello altrui.

I pazienti che incontriamo arricchiscono e chiarificano sia la teoria che abbiamo studiato, sia la conoscenza di noi stessi attraverso un reciproco scambio tra esseri umani.

Il terapeuta sistemico viene allenato a “cacciare”, a cercare ipotesi che aiutino il paziente a rivisitare la propria storia familiare e personale, viene allenato a comprendere il paziente anche rispetto al suo assetto diagnostico individuale, alla ricerca di un modello di comprensione sempre più complesso che cerchi di essere esaustivo anche dell’essere umano e delle sue relazioni. La teoria dell’attaccamento ci aiuta ad orientarci sulle premesse esistenziali dell’individuo, la pratica clinica e il ragionamento sui casi complessifica e categorizza sempre più il nostro pensiero, investendo però certamente più su una capacità digitale e meno analogica. Attualmente siamo più attenti e consideriamo come utili strumenti diagnostici anche le emozioni del terapeuta verso il paziente, la cui esplicitazione durante la terapia, in caso di stallo o di difficoltà, spesso aiuta a dare una sferzata
utile, permettendo di parlare anche di cose spesso abbastanza negative e di comprendere meglio che ruolo il paziente induce nell’interlocutore con cui interagisce, cioè utilizzando la relazione terapeuta-paziente come modello generale di relazione di quel singolo. L’Esplicitazione di alcuni automatismi o pattern significativi che il terapeuta sperimenta in vivo su di sé è un ottimo materiale, perdipiù inconfutabile, che aiuta il paziente a rintracciare la sua eventuale corresponsabilità nell’instaurare i rapporti umani che non funzionano.

Tenendo conto di queste quattro macrocategorie (ipotesi relazionali, diagnosi individuale, attaccamento, emozioni del terapeuta) integrate, ritengo quindi che da un punto di vista epistemologico la costruzione del nostro modello terapeutico racchiuda molte sfaccettature e cerchi di avvicinarsi il più possibile alla complessità di cui sopra. Tuttavia mi è capitato nella pratica clinica, di arrivare ad un’ottima comprensione razionale da parte della coppia terapeutica della vicenda esistenziale del paziente o della famiglia, nonché della genesi di alcuni sintomi e del loro significato senza che questo riuscisse però ad alleviare sufficientemente il malessere dell’individuo, come se ragione e sentimento, non riuscissero ad entrare in contatto, come se la comprensione razionale, se pur riconosciuta ed accettata non fosse sufficiente sbloccare alcuni comportamenti od emozioni automatiche che fanno tanto soffrire il nostro paziente. La sensazione è quella di uno scollamento difensivo, vicino alla dissociazione in tutti i suoi tre diversi livelli. Chi ha una formazione sistemica, spesso è carente di tecniche specifiche sul sintomo. Il paziente gravemente invalidato dal sintomo stesso non è sufficientemente meta-cognitivo: non ha voglia di perdere tempo con le interpretazioni, oppure sta talmente male che non ha lo spazio mentale per questo processo, è mosso solo dall’urgenza di stare meglio e ci chiede la “ricetta magica”. Inoltre anche il terapeuta “cacciatore” di ipotesi tende a sottovalutare l’importanza del trauma, soprattutto del microtrauma. Come terapeuti familiari siamo ancora probabilmente sviati dalla contrapposizione all’epistemologia freudiana primaria imperniata sull’ipotesi di un trauma sessuale universalizzato. Se in certe situazioni, è stato utile ricorrere alle poche tecniche analogiche che abbiamo appreso nel corso della nostra formazione (sculture, zaino, utilizzo mirato delle convocazioni, genogramma fotografico, peluches) in alcuni casi mi è capitato di restare in stallo.

Lo strumento EMDR ha risposto a questa esigenza. Dopo aver frequentato il corso, mi è parso chiaro come, tanto per cambiare, dato che io sono lo strumento terapeutico del mio lavoro, trovare una tecnica analogica fosse anche un’esigenza personale. Ho trovato particolarmente interessante l’utilizzo di EMDR nelle situazioni traumatiche e microtraumatiche dove il paziente è indotto dall’atteggiamento “normalizzante” del suo contesto relazionale a minimizzare un proprio disagio, anche molto antico e a NON SAPERLO più raccontare e forse nemmeno rintracciare. In particolare per il paziente EVITANTE SECONDARIO, per cui la difesa di anestesia copre un profondo e altrettanto frustrato bisogno di affetto e di cura, la gravità del sintomo costringe il paziente a chiedere aiuto e a misurarsi con cose che non avrebbe mai voluto dover guardare, anzi spesso per lungo tempo idealizzate. In questi casi anche solo la FOCALIZZAZIONE del target ha aiutato a superare le barriere razionali, autarchiche scissionali, lasciando
riaffiorare dolori molto antichi coperti da anni di stratificazioni difensive. La tecnica EMDR tranquillizza ed incoraggia soprattutto questo tipo di paziente perché:

  1. si presenta come una strada più veloce rispetto alla terapia classica soprattutto quella da immaginario collettivo.
  2. seda la ricerca della ricetta magica di soluzione sul sintomo.
  3. restituisce un ruolo più attivo al paziente perché è lui il protagonista del processo.
  4. riconosce implicitamente (scelta di un target) la gravità di alcune situazioni senza connotare il paziente come vittima o poverino, atteggiamento che l’evitante non riesce a tollerare, soprattutto nelle fasi iniziali della terapia.
  5. riorganizza in nuclei tematici anche il materiale raccolto in una lunga terapia precedente, restituendo un senso alla fatica.
  6. smuove l’inconscio in modo attivo e percepibile dal paziente anche più diffidente rispetto all’universo psicologico.
  7. ci aiuta a riconnotare il sintomo in maniera positiva dandogli un ruolo di attivatore di aiuto.
  8. aiuta a rintracciare degli schemi automatici, spesso legati ai nostri MOI che altrimenti sarebbero sconosciuti e che il terapeuta poi potrà giocarsi nella parte più tradizionale della terapia.

L’utilizzo dell’EMDR nella terapia di coppia

Non ho mai utilizzato l’EMDR propriamente nella terapia di coppia, ma IL CONCETTO di TRIGGER aiuta a rintracciare un meccanismo disfunzionale particolarmente doloroso e grave, quasi un pattern che abbiamo riscontrato in molti casi. Molto spesso, infatti, nelle gravi crisi (con prognosi peggiore), la rottura del patto coniugale o di coppia corrisponde proprio al meccanismo di trigger. La scelta del partner è dettata, come sappiamo, da meccanismi inconsci, per cui paradossalmente crediamo di sanare o allontanare ciò che ci ha fatto soffrire nella nostra infanzia e nella nostra famiglia di origine, ma in realtà, vogliamo anche RICONFRONTARCI con una determinata sofferenza e quindi scegliamo un partner che potenzialmente potrebbe aiutarci a placare le nostre ansie o ferite, ma che possiede anche specifiche caratteristiche delle nostre figure di allevamento con cui vogliamo
riuscire lì dove abbiamo fallito. Molto spesso le criticità del ciclo di vita, il pericoloso sovraccarico in particolare delle nuove famiglie a doppia carriera con osmosi di ruolo tra padre e madre, creano situazioni gravose e pesanti che possono slatentizzare in uno od entrambi i partner delle
strutture difensive arcaiche certo meno visibili o addirittura del tutto invisibili nella prima fase della coppia e soprattutto in quella dell’innamoramento. In poche parole, accade spesso che sotto stress un partner rispolveri un atteggiamento che amplifica nell’altro un profondo disagio esistenziale che lo riporta alla sofferenza patita rispetto alle sue figure di attaccamento. In questo caso (banalmente potrebbe essere un atteggiamento svalutante o ipercritico o banalizzante o trascurante) che spesso il singolo non si è nemmeno riconosciuto pur di SALVARE l’immagine delle sue figure di attaccamento su cui si era fatto affidamento, fa ripiombare l’individuo in uno stato di prostrazione e soprattutto di CONFUSIONE che lo fanno stare malissimo e possono far emergere sintomi anche molto gravi, oppure possono far agire comportamenti anche aggressivi (per es. Tradimenti). La posta in gioco infatti non è più solo la coppia, bensì LA SALUTE MENTALE DELL’INDIVIDUO. Ritrovarsi in un vecchio gioco relazionale negativo quando si èattivamente cercato di uscirne e di riscattarsi, mette in pericolo la fiducia nella corretta percezione della realtà. Quindi se l’atteggiamento/comportamento del partner ricalca delle sofferenze profonde, il partner diventa un TRIGGER molto negativo che fa riaffiorare la sofferenza negata. Chi si trova all’interno di questo automatismo rischia di oscillare tra due posizioni polarizzate:

  • considerare la colpa tutta dell’altro, salvando se stesso e ancora i suoi meccanismi di difesa.
  • considerarsi “pazzo” non avere nessun punto di riferimento, soprattutto perché diventando fragile, si sottomette alla “teoria” dell’altro attribuendosi tutta la colpa.

Questa colpa rimette in moto un circolo vizioso, molto amplificato di sentirsi inadeguati, sbagliati fino a considerarsi talmente confusi da dubitare di se stessi. Anche in questo caso l’utilizzo della sola focalizzazione durante la tranche individuale della terapia di coppia aiuta molto a sbrogliare, anche agli occhi dei pazienti, questo intreccio particolarmente doloroso e perverso.

Marta Zighetti

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